Dice S. Ilario [De Trin.
2, 9]: «Non pensi l‘uomo di poter penetrare con la sua intelligenza il
mistero della [eterna] generazione». E S. Ambrogio [De fide 1, 10]: «È
impossibile capire il mistero della generazione [divina]: la mente viene
meno, la voce tace». Ma come si è dimostrato [q. 30, a. 2], è appunto
in base alle origini per generazione e processione che si distinguono le
Persone divine. Quindi si conclude che la Trinità delle Persone non può
essere conosciuta con la ragione, dal momento che l‘uomo non è in grado
di conoscere e di raggiungere con la sua intelligenza se non ciò che
offre la possibilità di una dimostrazione cogente.
Dimostrazione: È impossibile giungere alla conoscenza della Trinità delle Persone divine con la sola ragione naturale. Si è infatti dimostrato sopra [q. 12, aa. 4, 11, 12] che l‘uomo con la sola ragione non può giungere alla conoscenza di Dio se non per mezzo delle creature. Ora, queste conducono a Dio come gli effetti alle loro cause. Quindi con la ragione naturale si possono conoscere di Dio soltanto quei dati che necessariamente gli convengono per il fatto di essere egli il principio di tutte le cose; e su questo criterio ci siamo basati nel trattato su Dio [q. 12, a. 12]. Ora, la virtù creatrice è comune a tutta la Trinità: quindi appartiene all‘unità dell‘essenza e non alla pluralità delle persone. Perciò con la ragione naturale si può conoscere solo quanto fa parte dell‘essenza, e non ciò che appartiene alla pluralità delle Persone. Quelli poi che tentano di dimostrare la Trinità delle Persone con la ragione naturale compromettono la fede in due modi. Primo, ne compromettono la dignità, poiché la fede ha per oggetto cose del tutto invisibili, che superano la capacità della ragione umana. L‘Apostolo infatti [Eb 11, 1] afferma che «la fede è di cose che non si vedono». E altrove [1 Cor 2, 6]: «Tra i perfetti parliamo sì di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo; parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta». — Secondo, ne compromettono l‘efficacia nell‘attirare altri alla fede. Se infatti per indurre a credere si portano delle ragioni che non sono cogenti, ci si espone alla derisione di coloro che non credono: poiché costoro penseranno che noi ci appoggiamo su tali argomenti per credere. Per tale motivo dunque tutto ciò che è di fede va provato soltanto con i testi [della Scrittura], per coloro che la riconoscono. Per gli altri invece basta difendere la non assurdità di quanto la fede insegna. Quindi Dionigi [De div. nom. 2] ammonisce: «Se qualcuno non cede all‘autorità della parola di Dio, è del tutto estraneo e lontano dalla nostra filosofia. Se invece ammette la verità della parola», cioè di quella divina, «è con noi, giacché noi pure ci serviamo di tale regola». Analisi delle obiezioni: 1. I filosofi non conobbero il mistero della Trinità delle divine Persone per quello che è ad esse proprio, cioè la paternità, la filiazione e la processione, secondo le parole dell‘Apostolo [1 Cor 2, 6]: «Parliamo di una sapienza divina, che nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscere», cioè nessuno dei filosofi, come spiega la Glossa [interlin.]. Conobbero tuttavia alcuni attributi essenziali che vengono appropriati alle varie persone, come la potenza al Padre, la sapienza al Figlio e la bontà allo Spirito Santo, come vedremo più avanti [q. 39. a. 7]. — Perciò l‘espressione di
Aristotele: «Ci industriamo di magnificare Dio con questo numero» non va intesa nel senso che egli ponesse il numero tre in Dio, ma vuole soltanto dire che gli antichi usavano il tre nei sacrifici e nelle preghiere per una certa sua perfezione. — Nei libri dei Platonici poi l‘espressione: «In principio era il verbo» non sta a indicare il verbo che in Dio è una persona generata, ma soltanto il verbo che è l‘idea astratta [e archetipa della realtà], secondo la quale tutte le cose furono fatte, e che viene attribuita per appropriazione al Figlio. E sebbene [i filosofi] abbiano conosciuto gli attributi appropriati alle tre persone, si dice tuttavia che fallirono al terzo segno, cioè nella conoscenza della terza Persona, perché deviarono dalla bontà che viene appropriata allo Spirito Santo quando, come dice S. Paolo [Rm 1, 21], pur avendo conosciuto Dio, «non lo glorificarono come Dio». Oppure perché i Platonici ponevano un primo essere, che chiamavano padre di tutto l‘universo, e dopo di lui un‘altra sostanza a lui soggetta, che chiamavano mente o intelletto del padre, nella quale c‘erano le idee di tutte le cose, come riferisce Macrobio [Super somn. Scip. 1, cc. 2, 6]: però non parlavano in alcun modo di una terza sostanza distinta che potesse in certo qual modo corrispondere allo Spirito Santo. Noi invece non ammettiamo che il Padre e il Figlio differiscano in tal modo per natura, ma questo fu l‘errore di Origene e di Ario, che in ciò si lasciarono guidare dai Platonici. — Quanto poi all‘affermazione di Trismegisto, che cioè «la monade generò la monade e rifletté in se stessa il suo calore», essa non va riferita alla generazione del Figlio e alla processione dello Spirito Santo, ma all‘origine del mondo, poiché il Dio unico produsse un unico universo per l‘amore di se medesimo.
(San Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, Argomento 32)
Dimostrazione: È impossibile giungere alla conoscenza della Trinità delle Persone divine con la sola ragione naturale. Si è infatti dimostrato sopra [q. 12, aa. 4, 11, 12] che l‘uomo con la sola ragione non può giungere alla conoscenza di Dio se non per mezzo delle creature. Ora, queste conducono a Dio come gli effetti alle loro cause. Quindi con la ragione naturale si possono conoscere di Dio soltanto quei dati che necessariamente gli convengono per il fatto di essere egli il principio di tutte le cose; e su questo criterio ci siamo basati nel trattato su Dio [q. 12, a. 12]. Ora, la virtù creatrice è comune a tutta la Trinità: quindi appartiene all‘unità dell‘essenza e non alla pluralità delle persone. Perciò con la ragione naturale si può conoscere solo quanto fa parte dell‘essenza, e non ciò che appartiene alla pluralità delle Persone. Quelli poi che tentano di dimostrare la Trinità delle Persone con la ragione naturale compromettono la fede in due modi. Primo, ne compromettono la dignità, poiché la fede ha per oggetto cose del tutto invisibili, che superano la capacità della ragione umana. L‘Apostolo infatti [Eb 11, 1] afferma che «la fede è di cose che non si vedono». E altrove [1 Cor 2, 6]: «Tra i perfetti parliamo sì di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo; parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta». — Secondo, ne compromettono l‘efficacia nell‘attirare altri alla fede. Se infatti per indurre a credere si portano delle ragioni che non sono cogenti, ci si espone alla derisione di coloro che non credono: poiché costoro penseranno che noi ci appoggiamo su tali argomenti per credere. Per tale motivo dunque tutto ciò che è di fede va provato soltanto con i testi [della Scrittura], per coloro che la riconoscono. Per gli altri invece basta difendere la non assurdità di quanto la fede insegna. Quindi Dionigi [De div. nom. 2] ammonisce: «Se qualcuno non cede all‘autorità della parola di Dio, è del tutto estraneo e lontano dalla nostra filosofia. Se invece ammette la verità della parola», cioè di quella divina, «è con noi, giacché noi pure ci serviamo di tale regola». Analisi delle obiezioni: 1. I filosofi non conobbero il mistero della Trinità delle divine Persone per quello che è ad esse proprio, cioè la paternità, la filiazione e la processione, secondo le parole dell‘Apostolo [1 Cor 2, 6]: «Parliamo di una sapienza divina, che nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscere», cioè nessuno dei filosofi, come spiega la Glossa [interlin.]. Conobbero tuttavia alcuni attributi essenziali che vengono appropriati alle varie persone, come la potenza al Padre, la sapienza al Figlio e la bontà allo Spirito Santo, come vedremo più avanti [q. 39. a. 7]. — Perciò l‘espressione di
Aristotele: «Ci industriamo di magnificare Dio con questo numero» non va intesa nel senso che egli ponesse il numero tre in Dio, ma vuole soltanto dire che gli antichi usavano il tre nei sacrifici e nelle preghiere per una certa sua perfezione. — Nei libri dei Platonici poi l‘espressione: «In principio era il verbo» non sta a indicare il verbo che in Dio è una persona generata, ma soltanto il verbo che è l‘idea astratta [e archetipa della realtà], secondo la quale tutte le cose furono fatte, e che viene attribuita per appropriazione al Figlio. E sebbene [i filosofi] abbiano conosciuto gli attributi appropriati alle tre persone, si dice tuttavia che fallirono al terzo segno, cioè nella conoscenza della terza Persona, perché deviarono dalla bontà che viene appropriata allo Spirito Santo quando, come dice S. Paolo [Rm 1, 21], pur avendo conosciuto Dio, «non lo glorificarono come Dio». Oppure perché i Platonici ponevano un primo essere, che chiamavano padre di tutto l‘universo, e dopo di lui un‘altra sostanza a lui soggetta, che chiamavano mente o intelletto del padre, nella quale c‘erano le idee di tutte le cose, come riferisce Macrobio [Super somn. Scip. 1, cc. 2, 6]: però non parlavano in alcun modo di una terza sostanza distinta che potesse in certo qual modo corrispondere allo Spirito Santo. Noi invece non ammettiamo che il Padre e il Figlio differiscano in tal modo per natura, ma questo fu l‘errore di Origene e di Ario, che in ciò si lasciarono guidare dai Platonici. — Quanto poi all‘affermazione di Trismegisto, che cioè «la monade generò la monade e rifletté in se stessa il suo calore», essa non va riferita alla generazione del Figlio e alla processione dello Spirito Santo, ma all‘origine del mondo, poiché il Dio unico produsse un unico universo per l‘amore di se medesimo.
(San Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, Argomento 32)
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