venerdì 27 luglio 2012

Se la trinità delle divine Persone possa essere conosciuta con la sola ragione naturale...

Dice S. Ilario [De Trin. 2, 9]: «Non pensi l‘uomo di poter penetrare con la sua intelligenza il mistero della [eterna] generazione». E S. Ambrogio [De fide 1, 10]: «È impossibile capire il mistero della generazione [divina]: la mente viene meno, la voce tace». Ma come si è dimostrato [q. 30, a. 2], è appunto in base alle origini per generazione e processione che si distinguono le Persone divine. Quindi si conclude che la Trinità delle Persone non può essere conosciuta con la ragione, dal momento che l‘uomo non è in grado di conoscere e di raggiungere con la sua intelligenza se non ciò che offre la possibilità di una dimostrazione cogente.
Dimostrazione: È impossibile giungere alla conoscenza della Trinità delle Persone divine con la sola ragione naturale. Si è infatti dimostrato sopra [q. 12, aa. 4, 11, 12] che l‘uomo con la sola ragione non può giungere alla conoscenza di Dio se non per mezzo delle creature. Ora, queste conducono a Dio come gli effetti alle loro cause. Quindi con la ragione naturale si possono conoscere di Dio soltanto quei dati che necessariamente gli convengono per il fatto di essere egli il principio di tutte le cose; e su questo criterio ci siamo basati nel trattato su Dio [q. 12, a. 12]. Ora, la virtù creatrice è comune a tutta la Trinità: quindi appartiene all‘unità dell‘essenza e non alla pluralità delle persone. Perciò con la ragione naturale si può conoscere solo quanto fa parte dell‘essenza, e non ciò che appartiene alla pluralità delle Persone. Quelli poi che tentano di dimostrare la Trinità delle Persone con la ragione naturale compromettono la fede in due modi. Primo, ne compromettono la dignità, poiché la fede ha per oggetto cose del tutto invisibili, che superano la capacità della ragione umana. L‘Apostolo infatti [Eb 11, 1] afferma che «la fede è di cose che non si vedono». E altrove [1 Cor 2, 6]: «Tra i perfetti parliamo sì di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo; parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta». — Secondo, ne compromettono l‘efficacia nell‘attirare altri alla fede. Se infatti per indurre a credere si portano delle ragioni che non sono cogenti, ci si espone alla derisione di coloro che non credono: poiché costoro penseranno che noi ci appoggiamo su tali argomenti per credere. Per tale motivo dunque tutto ciò che è di fede va provato soltanto con i testi [della Scrittura], per coloro che la riconoscono. Per gli altri invece basta difendere la non assurdità di quanto la fede insegna. Quindi Dionigi [De div. nom. 2] ammonisce: «Se qualcuno non cede all‘autorità della parola di Dio, è del tutto estraneo e lontano dalla nostra filosofia. Se invece ammette la verità della parola», cioè di quella divina, «è con noi, giacché noi pure ci serviamo di tale regola». Analisi delle obiezioni: 1. I filosofi non conobbero il mistero della Trinità delle divine Persone per quello che è ad esse proprio, cioè la paternità, la filiazione e la processione, secondo le parole dell‘Apostolo [1 Cor 2, 6]: «Parliamo di una sapienza divina, che nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscere», cioè nessuno dei filosofi, come spiega la Glossa [interlin.]. Conobbero tuttavia alcuni attributi essenziali che vengono appropriati alle varie persone, come la potenza al Padre, la sapienza al Figlio e la bontà allo Spirito Santo, come vedremo più avanti [q. 39. a. 7]. — Perciò l‘espressione di
Aristotele: «Ci industriamo di magnificare Dio con questo numero» non va intesa nel senso che egli ponesse il numero tre in Dio, ma vuole soltanto dire che gli antichi usavano il tre nei sacrifici e nelle preghiere per una certa sua perfezione. — Nei libri dei Platonici poi l‘espressione: «In principio era il verbo» non sta a indicare il verbo che in Dio è una persona generata, ma soltanto il verbo che è l‘idea astratta [e archetipa della realtà], secondo la quale tutte le cose furono fatte, e che viene attribuita per appropriazione al Figlio. E sebbene [i filosofi] abbiano conosciuto gli attributi appropriati alle tre persone, si dice tuttavia che fallirono al terzo segno, cioè nella conoscenza della terza Persona, perché deviarono dalla bontà che viene appropriata allo Spirito Santo quando, come dice S. Paolo [Rm 1, 21], pur avendo conosciuto Dio, «non lo glorificarono come Dio». Oppure perché i Platonici ponevano un primo essere, che chiamavano padre di tutto l‘universo, e dopo di lui un‘altra sostanza a lui soggetta, che chiamavano mente o intelletto del padre, nella quale c‘erano le idee di tutte le cose, come riferisce Macrobio [Super somn. Scip. 1, cc. 2, 6]: però non parlavano in alcun modo di una terza sostanza distinta che potesse in certo qual modo corrispondere allo Spirito Santo. Noi invece non ammettiamo che il Padre e il Figlio differiscano in tal modo per natura, ma questo fu l‘errore di Origene e di Ario, che in ciò si lasciarono guidare dai Platonici. — Quanto poi all‘affermazione di Trismegisto, che cioè «la monade generò la monade e rifletté in se stessa il suo calore», essa non va riferita alla generazione del Figlio e alla processione dello Spirito Santo, ma all‘origine del mondo, poiché il Dio unico produsse un unico universo per l‘amore di se medesimo.

(San Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, Argomento 32)

mercoledì 25 luglio 2012

Se il Figlio sia un altro rispetto al Padre...

S. Agostino [De fide ad Petrum 1] dice: «Una è l‘essenza del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, nella quale non è altra cosa il Padre, altra cosa il Figlio, altra cosa lo Spirito Santo; sebbene come persona altro sia il Padre, altro il Figlio, altro lo Spirito Santo». Dimostrazione: Siccome, al dire di S. Girolamo [cf. P. Lomb., Sent. 4, 13], col parlare impreciso si finisce col cadere nell‘eresia, parlando della SS. Trinità bisogna procedere con cautela e modestia: poiché, secondo S. Agostino [De Trin. 1, 3], «in nessun altro argomento l‘errore è più pericoloso, più faticosa la ricerca, più fruttuosa la scoperta». Ora, quando trattiamo della Trinità dobbiamo evitare, stando nel giusto mezzo, due opposti errori: quello di Ario, che poneva con la trinità delle persone anche una trinità di nature, e quello di Sabellio, che poneva con l‘unità di natura anche l‘unità di persona. Per sfuggire all‘errore di Ario dobbiamo evitare, parlando di Dio, i termini diversità e differenza, per non compromettere l‘unità dell‘essenza; possiamo invece usare il termine distinzione, data l‘opposizione relativa [delle persone]. Per cui, se in qualche testo autentico della Scrittura ci imbattiamo nelle parole diversità o differenza applicate alle persone divine, le dobbiamo intendere come significanti distinzione. Per non ledere dunque la semplicità dell‘essenza divina sono da evitare i termini separazione e divisione, proprie di un tutto suddiviso in parti. Per non compromettere poi l‘uguaglianza è da evitare la parola disparità. E infine per non sopprimere la somiglianza si devono evitare i termini alieno e discrepante. S. Ambrogio [De fide 1, 2] infatti dice che nel Padre e nel Figlio «vi è un‘unica divinità senza discrepanza». E S. Ilario, come si è riferito [ob. 3], afferma che in Dio «non c‘è nulla di alieno e nulla di separabile». Per non cadere poi nell‘errore di Sabellio dobbiamo evitare il termine singolarità, al fine di non negare la comunicabilità dell‘essenza divina: per cui, secondo S. Ilario [l. cit.], «è sacrilego dire che il Padre e il Figlio sono un Dio singolare [isolato]». E dobbiamo anche evitare il termine unico, per non escludere il numero delle persone: per cui S. Ilario [l. cit.] afferma che «da Dio si esclude il concetto di singolarità e di unicità». Possiamo tuttavia dire unico Figlio: poiché in Dio non ci sono più Figli; non possiamo però dire unico Dio: poiché la deità è comune a più [persone]. Evitiamo anche l‘aggettivo confuso, per non togliere l‘ordine di natura tra le persone: cosicché S. Ambrogio [l. cit.] può affermare: «Né ciò che è uno è confuso, né può essere molteplice ciò che non ammette differenza». Si deve anche evitare il termine solitario, per non distruggere la società delle tre persone. Dice infatti S. Ilario [De Trin. 4, 18]: «Dobbiamo confessare che Dio non è solitario, né diverso»
Ora, il termine alius [altro], usato al maschile, non comporta se non la distinzione del soggetto: perciò possiamo correttamente dire che il Figlio è un altro rispetto al Padre: poiché è un altro soggetto della natura divina, com'è un'altra persona e un'altra ipostasi.

martedì 24 luglio 2012

Se i termini numerici pongano qualcosa in Dio...

Dice S. Ilario [De Trin. 4, 17]: «Professare il consorzio [divino] », che equivale a confessare la pluralità, «esclude l‘idea dell‘isolamento e della solitudine». E S. Ambrogio [De fide 1, 2] afferma: «Quando diciamo che Dio è uno, l‘unità esclude la pluralità degli dèi, ma non pone in Dio alcuna quantità». Dal che si vede che questi termini sono usati in senso negativo, non in senso positivo.

Dimostrazione: Il Maestro delle Sentenze [1, 24] afferma che i termini numerici non pongono nulla, ma soltanto escludono qualcosa in Dio. Altri invece dicono il contrario. Per mettere in chiaro la cosa si osservi che qualsiasi pluralità è effetto di una divisione. Ora, vi sono due tipi di divisione. Una è quella materiale, che si ha dividendo una quantità continua: e da questa sorge il numero, che è una delle specie in cui si suddivide la quantità. E un simile numero non si dà che nelle cose materiali dotate di quantità. L‘altra è la divisione formale, che risulta da forme diverse e opposte: e conseguenza di questa divisione è la pluralità, la quale non è limitata a un genere, ma appartiene ai trascendentali, in quanto l‘ente può essere uno e molteplice. Ora, nelle realtà immateriali si trova solo questa pluralità. Alcuni dunque, non badando se non alla pluralità che è una specie della quantità discreta, e vedendo che questa in Dio non c‘è, dissero che i termini numerali in Dio non pongono, ma soltanto escludono qualcosa. — Altri invece, avendo di mira questa stessa pluralità [quantitativa], affermarono che, come la scienza viene posta in Dio solo secondo la sua natura specifica, ma non secondo la natura del genere [a cui appartiene], dato che in Dio non esistono qualità, allo stesso modo si porrebbe in Dio il numero secondo la natura propria del numero, ma non secondo quella del genere a cui appartiene, cioè della quantità. Noi invece diciamo che i termini numerici, in quanto vengono applicati a Dio, non derivano dal numero che forma una delle specie della quantità — perché allora verrebbero attribuiti a Dio solo in senso metaforico, come le altre proprietà dei corpi, quali la larghezza, la lunghezza e simili —, ma derivano dal numero preso come trascendentale. Ora, tale numero sta alle cose a cui viene attribuito come l‘uno che si identifica con l‘ente sta all‘ente. Ma come si è detto sopra [q. 11, a. 1] parlando dell‘unità di Dio, l‘unità non aggiunge all‘ente altro che la negazione della divisione: poiché uno significa ente indiviso. Quindi di qualsiasi cosa esso si predichi, significa che quella cosa è indivisa: come quando si dice che l‘uomo è uno si intende che la sua natura o sostanza è indivisa. E per la stessa ragione, quando si parla di un numero di cose, il numero così indicato significa quelle date cose e la loro rispettiva indivisione. — Invece il numero che è una delle specie della quantità
indica un determinato accidente che si aggiunge all‘ente [numerato]; e così si dica dell‘unità che è principio del numero. Quindi in Dio i termini numerali significano le realtà a cui vengono attribuiti e non aggiungono altro che una negazione, come si è spiegato; e in ciò ha ragione il Maestro delle Sentenze. Così quando diciamo che è una l‘essenza, l‘unità significa che l‘essenza è indivisa; quando diciamo che è una la persona, [l‘unità] significa la persona indivisa; quando poi diciamo: vi sono più persone, indichiamo le stesse persone e le loro rispettive indivisioni: poiché è proprio della molteplicità essere composta di unità. Analisi delle obiezioni: 1. L‘unità, essendo uno dei trascendentali, è un termine più universale che sostanza e relazione: e lo stesso si dica della pluralità. Quindi in Dio esso può indicare sia la sostanza che la relazione, secondo che viene aggiunto all‘una o all‘altra. Tuttavia con questi termini [unità e pluralità], stante il loro significato proprio, viene aggiunta all‘essenza e alla relazione una certa negazione della divisione, come si è spiegato [nel corpo].

(S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae)

domenica 22 luglio 2012

Se a Dio si possa attribuire il nome di persona…




Partiamo da qui…

Boezio [De duab. nat. 3] dice: «Il nome di persona Pare che abbia avuto origine da quelle maschere con le quali nelle commedia e nelle tragedie si rappresentavano alcuni personaggi: persona infatti è detta da personare [risonare, rimbombare, suonare forte]: poiché per la stessa concavità [della maschera] il suono risulta rafforzato. E i Greci queste maschere [o persone] le dicono pròsopa, dato che poste in faccia, davanti al viso, nascondono il volto». Ma tutto ciò non può convenire a Dio se non in senso metaforico. Quindi il termine persona non può essere attribuito a Dio se non per metafora

In contrario: Nel Simbolo di S. Atanasio è detto: «Altra è la persona del Padre, altra quella del Figlio, altra quella dello Spirito Santo

Dimostrazione: La persona significa quanto di più nobile si trova in tutto l‘universo, cioè il sussistente di natura razionale. Per questo, dovendosi attribuire a Dio tutto ciò che comporta perfezione, dato che nella sua essenza egli contiene tutte le perfezioni, è conveniente che gli venga attribuito anche il nome di persona. Tuttavia non nel modo in cui viene attribuito alle creature, ma in maniera più eccellente, come si fa con gli altri nomi da noi imposti alle creature e applicati a Dio.

Quindi:

Soluzioni delle difficoltà : Quantunque, se si bada alla sua etimologia, il nome persona non convenga a Dio, tuttavia gli conviene, e in grado sommo, se si considera il suo significato. Siccome infatti nelle commedie e nelle tragedie si rappresentavano personaggi famosi, il nome persona fu imposto per significare soggetti costituiti in dignità. Di qui venne l‘uso della Chiesa di chiamare persone quelli che rivestivano una qualche carica. Per questo alcuni definiscono la persona come «un‘ipostasi contrassegnata da una qualifica connessa con una dignità». E siccome è una grande dignità sussistere come soggetto di natura razionale, perciò, , ogni individuo di tale natura fu chiamato persona. Ma la dignità della natura divina eccede qualsiasi dignità: perciò a Dio massimamente conviene il nome persona.

mercoledì 18 luglio 2012

Se in Dio vi siano delle processioni...

La Sacra Scrittura, trattando di Dio, usa parole esprimenti processione. Questa processione però fu intesa in diversi modi. Alcuni la intesero come processione degli effetti dalle loro cause. E così la intese Ario, il quale diceva che il Figlio procede dal Padre come sua prima creatura, e lo Spirito Santo dal Padre e dal Figlio come creatura di entrambi. — Ma allora né il Figlio sarebbe vero Dio, né lo Spirito Santo. Ciò però è in contrasto con quanto viene detto del Figlio [1 Gv 5, 20]: «Noi siamo nel vero Dio e nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio». E dello Spirito Santo è detto [1
Cor 6, 19]: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo?». Ora, avere un tempio spetta a Dio solo. Altri invece presero la processione nel senso che le si dà quando si dice che la causa procede nel suo effetto, o in quanto lo produce, o in quanto gli imprime la propria somiglianza. E in questo senso la interpretò Sabellio, il quale affermava che lo stesso Dio Padre è detto Figlio in quanto prese carne dalla Vergine. E diceva che è anche Spirito Santo in quanto santifica e vivifica l‘uomo. — Questo senso però è escluso da ciò che il Signore dice di se stesso [Gv 5, 19]: «Il Figlio da sé non può fare nulla», e da molte altre espressioni in base alle quali risulta che il Figlio è distinto dal Padre. Ora, se si guarda bene, si vede che tanto l‘uno quanto l‘altro presero il termine processione nel senso di moto tendente all‘esterno: quindi né l‘uno né l‘altro ammise la processione in Dio stesso. Essendo però ogni processione la conseguenza di qualche azione, come dall‘azione che tende a un oggetto esteriore deriva una processione all‘esterno, così dall‘azione che resta nell‘agente si ha una processione che resta nell‘interno stesso dell‘agente. E ciò appare molto chiaramente nell‘intelletto, la cui azione, cioè l‘intendere, rimane in chi intende. Infatti in chiunque intende, per ciò stesso che intende, c‘è qualcosa che procede in lui, che è il concetto [o l‘idea] della cosa intesa, che sgorga dall‘attività della mente e dalla nozione della cosa intesa. Ed è questo concetto, o idea, che viene espresso esternamente con la voce: e viene detto verbo mentale, significato dal verbo orale [o parola]. Ora, essendo Dio al di sopra di tutte le cose, ciò che si dice di lui non va inteso per analogia con le creature inferiori, ma con le superiori, cioè con le sostanze intellettuali; e per di più anche le similitudini desunte da esse sono insufficienti a rappresentare le realtà divine. Quindi la processione [divina] non va presa nello stesso senso di quella che si verifica nei corpi con il moto locale o con l‘azione transitiva di una causa su degli oggetti esteriori, come quella del fuoco su un oggetto scaldato, ma piuttosto come un‘emanazione intellettuale, quale è quella del verbo mentale che resta nella mente che lo esprime. E in questo senso la fede cattolica pone delle processioni in Dio.

( Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, Articolo 1, Argomento 26)

Se nella beatitudine di Dio sia inclusa ongi altra beatitudine....

La beatitudine è una perfezione. Ma la perfezione di Dio comprende ogni perfezione. Quindi la beatitudine divina include ogni beatitudine.
 Dimostrazione: Quanto di desiderabile si trova in qualsiasi beatitudine, sia essa vera o falsa, preesiste in modo eminente nella beatitudine divina. Così, [se si considera] la felicità della vita contemplativa, Dio ha la continua e infallibile contemplazione di se stesso e di tutte le altre cose; [se si considera invece] la felicità della vita attiva, ha il governo di tutto l‘universo. Se poi [si considera] la felicità terrena, consistente secondo Boezio [De consol. 3, pr. 2] nei piaceri, nelle ricchezze, nel potere, nelle cariche e nella gloria, Dio in cambio dei piaceri possiede il godimento di sé e di tutte le altre cose; in cambio delle ricchezze ha quella assoluta sufficienza che le ricchezze promettono; in luogo del potere ha l‘onnipotenza; in luogo delle cariche il regime universale; in luogo della gloria l‘ammirazione di ogni creatura.

(Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, Articolo 4, Argomento 25)

martedì 17 luglio 2012

Se Dio sia Onnipotente...

Tutti sono d‘accordo nel riconoscere che Dio è onnipotente. Ma il difficile sta nell‘assegnare la ragione dell‘onnipotenza, poiché quando si dice che Dio può tutto resta in dubbio che cosa si comprenda sotto questo termine collettivo [tutto]. Se però si esamina bene la cosa, siccome potenza si dice relativamente ai possibili, quando si dice che Dio può tutto non si può intendere meglio di così: che può tutto ciò che è possibile, e che per questo è detto onnipotente. Ora, secondo il Filosofo, il termine possibile è preso in due sensi. Primo, in relazione a una potenza particolare: come ciò che è sottoposto alla potenza umana è detto possibile all‘uomo. Ma non si può dire che Dio è onnipotente perché può tutto ciò che è possibile alla natura creata: poiché la potenza divina si estende molto oltre. E se d‘altra parte uno dicesse che Dio è onnipotente perché può tutto ciò che è possibile alla sua potenza, farebbe un circolo vizioso nello spiegare l‘onnipotenza: con ciò infatti non si verrebbe a dire nient‘altro che questo: che Dio è onnipotente perché può tutto ciò che può. Resta dunque che Dio sia detto onnipotente perché può tutte le cose che sono possibili. E questo è il secondo senso in cui si prende il termine possibile. Ora, una cosa è detta possibile o impossibile, assolutamente parlando, secondo il rapporto dei termini: possibile quando il predicato non ripugna al soggetto, come [nell‘espressione]: Socrate siede; assolutamente impossibile invece quando il predicato ripugna al soggetto, come [nell‘espressione]: l‘uomo è un asino. Bisogna però considerare che, siccome ogni agente produce un effetto simile a sé, a ogni potenza attiva corrisponde un possibile come oggetto proprio, secondo la natura dell‘atto su cui si fonda la potenza attiva: p. es. la potenza
calorifica si riferisce, come al proprio oggetto, a ciò che è suscettibile di essere riscaldato. Ora l‘essere divino, su cui si fonda la ragione della potenza divina, è l‘essere infinito, non limitato a un qualche genere di enti, ma avente in sé, in antecedenza, la perfezione di tutto l‘essere. Quindi tutto ciò che può avere ragione di ente è contenuto tra i possibili assoluti, a riguardo dei quali Dio viene detto onnipotente. Ma nulla si oppone alla ragione di ente al di fuori del non ente. Quindi alla ragione di possibile assoluto, oggetto dell‘onnipotenza divina, ripugna solo ciò che implica in sé l‘essere e il non essere simultaneamente. Ciò, infatti, è fuori del dominio della divina onnipotenza: non per un difetto della potenza di Dio, ma perché non ha la natura di cosa fattibile o possibile. Così tutto ciò che non implica contraddizione è contenuto tra quei possibili rispetto ai quali Dio è detto onnipotente; tutto ciò che invece implica contraddizione non rientra sotto la divina onnipotenza, in quanto non può avere la natura di cosa possibile. Quindi è più esatto dire: ciò non può essere fatto, piuttosto che dire: Dio non lo può fare. — E questa spiegazione non contrasta con le parole dell‘Angelo [l. cit. nel s.c.]: «Nessuna parola è impossibile a Dio». Infatti ciò che implica contraddizione non può essere una parola: poiché nessun intelletto può concepirlo.

(S. Tommaso, Argomento 25, Articolo 3)

Se la potenza di Dio sia infinita...

Il Filosofo (Aristotele) prova che, se un corpo avesse un potere infinito, muoverebbe al di fuori del tempo; tuttavia dimostra [Phys. 8, 10] che la potenza del motore del cielo è infinita perché può muovere per un tempo infinito. Resta dunque, secondo il suo pensiero, che la potenza infinita di un corpo, se si desse, muoverebbe al di fuori del tempo; non invece la potenza di un motore incorporeo. E la ragione è che un corpo il quale muove un altro corpo è un agente univoco, quindi è necessario che tutta la potenza di tale agente si manifesti nel moto. Quanto infatti più grande è la potenza di un corpo motore, tanto più veloce è il movimento che imprime: se quindi essa fosse infinita muoverebbe necessariamente con una velocità illimitata, e ciò equivarrebbe a muovere fuori del tempo. Ma il motore incorporeo non è un agente univoco, quindi non c‘è bisogno che la sua potenza si manifesti tutta nel moto, fino a muovere fuori di ogni tempo. E specialmente perché muove secondo il beneplacito della sua volontà.

(San Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, Argomento 25, Soluzioni delle difficoltà 3,)

lunedì 16 luglio 2012

Dio non ha creato che unendo...


La creazione, nella sua infinita varietà, costituisce un insieme armonioso, le cui parti sono legate fra loro e vivono le une in funzione delle altre. Dall’atomo all’angelo, dalla coesione delle molecole alla comunione dei santi, niente esiste da solo né per se stesso.
Dio non ha creato che unendo. Il dramma dell’uomo è quello di separare. Egli si separa da Dio con l’irreligiosità, dai suoi fratelli con l’indifferenza, l’odio e la guerra, si separa infine dalla sua anima con la ricerca dei beni apparenti e caduchi. E quest’essere, separato da tutto, proietta sull’universo il riflesso della sua divisione interiore; egli separa tutto intorno a sé; porta le sue mani sacrileghe sulle più umili vestigia dell’unità divina; sbriciola tutto fin dentro le viscere della materia. L’uomo atomizzato e la bomba atomica rispondono l’uno all’altra.
La metafisica della separazione è la metafisica stessa del peccato. Ma poiché l’uomo non può vivere senza un simulacro d’unità, queste sue parti, disgiunte ed uccise dal peccato, si ricongiungono, in quanto morte, non più come gli organi d’un medesimo corpo, ma come i granelli di sabbia dello stesso deserto.
La separazione porta con sé la confusione, la rottura, l’uniformità. Non esistono più artigiani liberi ed originali, ma una «massa» di proletari; non ci sono più coppie che si amano di un amore unico, ma una bellezza standard ed una sessualità meccanicizzata.
Non c’è possibilità di salvezza che nel ritorno all’unità nella diversità [...]. Il nostro solo scopo, pubblicando queste pagine, è quello di aiutare qualche anima di buona volontà a non separare quel che Iddio ha unito. Per questo  è necessario innanzitutto comprendere che, nell’ordine più temporale, non c’è pienezza umana possibile, di cui Iddio non sia il centro e l’anima.

(Gustave Thibon, Quel che Dio ha unito. Saggio sull’amore, tr. it., Società Editrice Siciliana, Mazara del Vallo [Trapani] 1947, V-VII)

sabato 14 luglio 2012

Se i predestinati siano eletti da Dio...

S. Paolo [Ef 1, 4] afferma: «In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo».

 Dimostrazione: La predestinazione concettualmente presuppone l‘elezione, e questa presuppone l‘amore. E la ragione di ciò è che la predestinazione,  è parte della provvidenza. La provvidenza poi, come anche la prudenza, è il piano esistente nell‘intelletto che dispone la destinazione di alcuni esseri al fine. Ora, non si comanda la destinazione di un qualcosa al fine se non precede la volizione del fine. Per cui la predestinazione di alcuni alla salvezza eterna presuppone, logicamente, che Dio voglia la loro salvezza. Ora, questa volontà comprende l‘elezione e l‘amore. L‘amore in quanto Dio vuole ad essi il bene che è la salvezza eterna poiché, come si è detto altrove [q. 20, aa. 2, 3], amare significa volere del bene a qualcuno; l‘elezione invece in quanto [Dio] vuole tale bene ad alcuni a preferenza di altri, dato che alcuni li riprova. Però l‘elezione e l‘amore in Dio hanno una disposizione diversa che in noi: poiché in noi la volontà amando non crea il bene, ma piuttosto dal bene che già esiste siamo incitati ad amare. E perciò scegliamo uno per amarlo, e quindi in noi l‘elezione precede l‘amore. In Dio invece è il contrario. Infatti la sua volontà, con la quale amando vuole a qualcuno un bene, è causa del fatto che questo bene sia posseduto da costui a preferenza di altri. E così è evidente che l‘amore è logicamente presupposto all‘elezione, e l‘elezione alla predestinazione. Per conseguenza tutti i predestinati sono amati ed eletti.

(S. Tommaso D'Aquino, Summa Theologiae, Articolo 4, Argomento 21)

mercoledì 11 luglio 2012

Se la Misericordia si addica a Dio...

Sta scritto: «Paziente e misericordioso è il Signore».

Dimostrazione: La misericordia va attribuita a Dio in modo principalissimo: non per quanto ha di sentimento o passione, ma per gli effetti [che produce].
 A Analisi di ciò si osservi che misericordioso si dice colui che ha in certo qual modo un cuore misero, nel senso che alla vista delle altrui miserie è preso da tristezza come se si trattasse della sua propria miseria. E da ciò proviene che egli si adoperi a rimuovere la miseria altrui come la sua propria miseria. E questo è l‘effetto della misericordia. Rattristarsi dunque della miseria altrui non si addice a Dio; però gli conviene in grado sommo il liberare dalla miseria, intendendo per miseria qualsiasi difetto. Ora, i difetti non vengono tolti se non con qualche perfezione di bene: ma la prima fonte di ogni bontà è Dio, come sopra . Bisogna però considerare che comunicare le perfezioni alle cose appartiene e alla bontà, e alla giustizia, e alla liberalità, e alla misericordia di Dio; ma per ragioni diverse. Il fatto di comunicare le perfezioni, considerato in modo assoluto, appartiene infatti alla bontà, come sopra si è dimostrato . Se però si vuole sottolineare che Dio comunica alle cose delle perfezioni ad esse proporzionate, allora appartiene alla giustizia, come si è detto . E se si vuole mettere in evidenza che egli concede delle perfezioni alle cose non per proprio vantaggio, ma unicamente perché spinto dalla sua bontà, allora abbiamo la liberalità. Se infine consideriamo che le perfezioni concesse da Dio eliminano delle deficienze, abbiamo la misericordia.

martedì 10 luglio 2012

Udienza Generale fatta da S.S. il Papa Giovanni Paolo I... Molto bella e molto attuale...


Mercoledi 27 Settembre 1978


« Mio Dio, amo con tutto il cuore sopra ogni cosa Voi, bene infinito e nostra eterna felicità, e per amor Vostro amo il prossimo mio come me stesso e perdono le offese ricevute. O Signore, ch'io Vi ami sempre più ». È una preghiera notissima intarsiata di frasi bibliche. Me l'ha insegnata la mamma. La recito più volte al giorno anche adesso e cerco di spiegarvela, parola per parola, come farebbe un catechista di parrocchia. Siamo alla « terza lampada di santificazione » di Papa Giovanni: la carità.Amo. A scuola di filosofia il professore mi diceva: Tu conosci il campanile di San Marco? Sì? Ciò significa ch'esso è entrato in qualche modo nella tua mente: fisicamente è rimasto dov'era, ma nel tuo intimo esso ha impresso quasi un suo ritratto intellettuale. Tu, invece, ami il campanile di S. Marco? Ciò significa che quel ritratto, da dentro, ti spinge e ti inclina, quasi ti porta, ti fa andare con l'animo verso il campanile ch'è fuori. Insomma: amare significa viaggiare, correre con il cuore verso l'oggetto amato. Dice l'imitazione di Cristo: chi ama « currit, volat, laetatur », corre, vola e gode (1). Amare Dio è dunque un viaggiare col cuore verso Dio. Viaggio bellissimo. Ragazzo, mi estasiavo nei viaggi descritti da Giulio Verne (« Ventimila leghe sotto i mari », « Dalla terra alla luna », « Il giro del mondo in ottanta giorni », ecc.). Ma i viaggi dell'amore a Dio sono molto più interessanti. Li si legge nella vita dei Santi. S. Vincenzo de' Paoli, di cui celebriamo oggi la festa, per esempio, è un gigante della carità: ha amato Dio come non si ama un padre e una madre, è stato lui stesso un padre per prigionieri, malati, orfani e poveri. S. Pietro Claver, consacrandosi tutto a Dio, firmava: Pietro, schiavo dei negri per sempre. Il viaggio porta anche dei sacrifici, ma questi non devono fermarci. Gesù è in croce: tu lo vuoi baciare? non puoi fare a meno di piegarti sulla croce e lasciarti pungere da qualche spina della corona, che è sul capo del Signore (2). Non puoi far la figura del buon S. Pietro, che è stato bravo a gridare « Viva Gesù » sul monte Tabor, dove c'era la gioia, ma non s'è neppure lasciato vedere accanto a Gesù sul monte Calvario, dove c'era il rischio e il dolore (3). L'amore a Dio è anche viaggio misterioso: io non parto cioè, se Dio non prende prima l'iniziativa. « Nessuno - ha detto Gesù - può venire a me, se non lo attira il Padre » (4). Si chiedeva S. Agostino: ma, allora, la libertà umana? Dio, però, che ha voluto e costruito questa libertà, sa Lui come rispettarla, pur portando i cuori al punto da Lui inteso: « parum est voluntate, etiam voluptate traheris »; Dio non soltanto ti attira in modo che tu stesso voglia, ma perfino in modo che tu gusti di essere attirato (5). Con tutto il cuore. Sottolineo, qui, l'aggettivo « tutto ». Il totalitarismo, in politica è brutta cosa. In religione, invece, un nostro totalitarismo nel confronto di Dio va benissimo. Sta scritto: « Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte » (6). Quel « tutto » ripetuto e piegato alla pratica con tanta insistenza è davvero la bandiera del massimalismo cristiano. Ed è giusto: è troppo grande Dio, troppo Egli merita da noi, perché gli si possano gettare, come ad un povero Lazzaro, appena poche briciole del nostro tempo e del nostro cuore. Egli è bene infinito e sarà nostra felicità eterna: i denari, i piaceri, le fortune di questo mondo, al suo confronto, sono appena frammenti di bene e momenti fugaci di felicità. Non sarebbe saggio dare tanto di noi a queste cose e poco di noi a Gesù. Sopra ogni cosa. Adesso si viene ad un confronto diretto tra Dio e l'uomo, tra Dio e il mondo. Non sarebbe giusto dire: « O Dio o l'uomo ». Si devono amare « e Dio e l'uomo »; quest'ultimo, però, mai più di Dio o contro Dio o alla pari di Dio. In altre parole: l'amore di Dio è bensì prevalente, ma non esclusivo. La Bibbia dichiara Giacobbe santo (7) e amato da Dio (8), lo mostra impegnato in sette anni di lavoro per conquistarsi Rachele come moglie; « e gli parvero pochi giorni, quegli anni, tanto era il suo amore per lei » (9). Francesco di Sales fa sopra queste parole un commentino: « Giacobbe - scrive - ama Rachele con tutte le sue forze, e con tutte le sue forze ama Dio; ma non per questo ama Rachele come Dio né Dio come Rachele. Ama Dio come suo Dio sopra tutte le cose e più di se stesso; ama Rachele come sua moglie sopra tutte le altre donne e come se stesso. Ama Dio con amore assolutamente e sovranamente sommo, e Rachele con sommo amore maritale; l'un amore non è contrario all'altro perché quello di Rachele non viola i supremi vantaggi dell'amore di Dio » (10). E per amor vostro amo il prossimo mio. Siamo qui di fronte a due amori che sono « fratelli gemelli »e inseparabili. Alcune persone è facile amarle; altre, è difficile; non ci sono simpatiche, ci hanno offeso e fatto del male; soltanto se amo Dio sul serio, arrivo ad amarle, in quanto figlie di Dio e perché questi me lo domanda. Gesù ha anche fissato come amare il prossimo: non solo cioè con il sentimento, ma coi fatti. Questo è il modo, disse. Vi chiederò: Avevo fame nella persona dei miei fratelli più piccoli, mi avete dato da mangiare? Mi avete visitato, quand'ero infermo? (11)


Il catechismo traduce queste ed altre parole della Bibbia nel doppio elenco delle sette opere di misericordia corporali e sette spirituali. L'elenco non è completo e bisognerebbe aggiornarlo. Fra gli affamati, per esempio, oggi, non si tratta più soltanto di questo o quell'individuo; ci sono popoli interi.
Tutti ricordiamo le grandi parole del papa Paolo VI: « I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell'opulenza. La Chiesa trasale davanti a questo grido di angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello » (12). A questo punto alla carità si aggiunge la giustizia, perché - dice ancora Paolo VI - « la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario » (13). Di conseguenza « ogni estenuante corsa agli armamenti diviene uno scandalo intollerabile » (14).
Alla luce di queste forti espressioni si vede quanto - individui e popoli - siamo ancora distanti dall'amare gli altri « come noi stessi », che è comando di Gesù.
Altro comando: perdono le offese ricevute. A questo perdono pare quasi che il Signore dia precedenza sul culto: « Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono »(15).
Ultime parole della preghiera sono: Signore, ch'io vi ami sempre più. Anche qui c'è obbedienza a un comando di Dio, che ha messo nel nostro cuore la sete del progresso. Dalle palafitte, dalle caverne e dalle prime capanne siamo passati alle case, ai palazzi, ai grattacieli; dai viaggi a piedi, a schiena di mulo o di cammello, alle carrozze, ai treni, agli aerei. E si desidera progredire ancora con mezzi sempre più rapidi, raggiungendo mete sempre più lontane. Ma amare Dio - l'abbiamo visto - è pure un viaggio: Dio lo vuole sempre più intenso e perfetto. Ha detto a tutti i suoi: « Voi siete la luce del mondo, il sale della terra »(16); « siate perfetti com'è perfetto il vostro Padre celeste » (17). Ciò significa: amare Dio non poco, ma tanto; non fermarsi al punto in cui si è arrivati, ma col Suo aiuto, progredire nell'amore.

Se Dio ami tutte le cose...

Dio ama tutte le realtà esistenti: infatti tutto ciò che esiste, in quanto esiste, è buono, e l‘essere di ciascuna cosa è un bene, come pure è un bene ogni sua perfezione. Ora, sopra  si è dimostrato che la volontà di Dio è causa di tutte le cose, e per conseguenza ogni ente ha tanto di essere, o di qualsiasi bene, nella misura in cui è oggetto della volontà di Dio. Quindi a ogni essere esistente Dio vuole qualche bene. Per cui, siccome amare non è altro che volere del bene a qualcuno, è evidente che Dio ama tutte le realtà esistenti. Dio però non [ama] come noi. La nostra volontà, infatti, non causa il bene che si trova nelle cose, ma al contrario è mossa da esso come dal proprio oggetto: e così il nostro amore, con il quale vogliamo del bene a qualcuno, non è causa della sua bontà, ma piuttosto la sua bontà, vera o creduta tale,
provoca l‘amore, che ci spinge a volere che gli sia mantenuto il bene che possiede e acquisti quello che non ha; e ci adoperiamo a tale scopo. Invece l‘amore di Dio infonde e crea la bontà nelle cose.
(San Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae)

L'atto dell'amore...

L‘atto dell‘amore tende sempre verso due oggetti: verso il bene che si vuole a qualcuno e verso colui al quale si vuole il bene, poiché amare qualcuno vuol dire precisamente volere a lui del bene. Quindi, dal momento che uno
si ama, vuole a se stesso del bene, e questo bene cerca di unirlo a se medesimo per quanto può. Per tale motivo l‘amore è detto forza unitiva anche in Dio, però senza composizione di sorta, poiché quel bene che [Dio] vuole a se stesso non è altra cosa che lui medesimo, il quale è buono per essenza. In quanto poi uno ama un altro, vuole del bene a quest‘altro. E lo tratta come se stesso, rivolgendo a lui il bene come a se medesimo. E in questo senso l‘amore è detto forza aggregativa: poiché uno aggrega un altro a se medesimo, e lo tratta come un altro se stesso. E così anche l‘amore divino è una forza aggregativa, senza che per questo in Dio vi sia composizione, in quanto egli vuole per altri cose buone.
(San Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae)

lunedì 9 luglio 2012

Se Dio voglia il male...

Scrive S. Agostino [Lib. LXXXIII quaest. 3]: «L‘uomo non diventa mai peggiore per l‘influsso di un uomo saggio; ma Dio è al disopra di tutti i sapienti: molto meno, dunque, uno può diventare peggiore per influsso di Dio. E quando si dice influsso di Dio si dice volontà di Dio». Quindi non è per volontà di Dio che un uomo diventa peggiore. Ora, è chiaro che per qualsiasi male una cosa diventa peggiore. Quindi Dio non vuole il male.
Dimostrazione: Siccome la nozione di bene coincide con la nozione di appetibile,  e siccome il male è l‘opposto del bene, è impossibile che una cosa cattiva, in quanto tale, sia oggetto di desiderio da parte dell‘appetito naturale, o di quello animale, o di quello intellettivo, che è la volontà. Una cosa cattiva però può essere oggetto di desiderio indirettamente, in quanto è unita a un bene. E ciò si riscontra in ognuno dei [tre] generi di appetiti. Infatti una causa fisica non ha [direttamente] di mira la privazione o la distruzione [che di fatto produce], ma una forma alla quale è legata la privazione di un‘altra forma, o la generazione di un essere che comporta la distruzione di un altro essere. Come anche il leone, nell‘uccidere un cervo, mira direttamente al cibo, al quale è congiunta l‘uccisione dell‘animale. E allo stesso modo il fornicatore cerca il piacere, al quale è unita la deformità della colpa. Il male però che si presenta unito a un dato bene è privazione di un bene d‘altro genere. Quindi un male non sarebbe mai desiderato, neppure indirettamente o accidentalmente, se il bene a cui è congiunto il male non fosse più
desiderato di quel bene che il male esclude. Ora, Dio nulla desidera più della sua stessa bontà; ci sono però dei beni che egli preferisce ad altri. Per cui il male della colpa [il peccato], che allontana dal bene divino, Dio non lo vuole in alcun modo. Invece egli può volere quel male che è una deficienza della natura, o il male della pena, quando vuole un bene a cui è unito quel male: come nel volere la giustizia vuole la pena, e volendo la conservazione dell‘ordine naturale vuole che certi esseri naturalmente periscano.

venerdì 6 luglio 2012

Vita di San Tommaso d'Aquino...


Quando papa Giovanni XXII nel 1323, iscrisse Tommaso d’Aquino nell’Albo dei Santi, a quanti obiettavano che egli non aveva compiuto grandi prodigi, né in vita né dopo morto, il papa rispose con una famosa frase: “Quante preposizioni teologiche scrisse, tanti miracoli fece”.
E questo, è il riconoscimento più grande che si potesse dare al grande teologo e Dottore della Chiesa, che con la sua “Summa teologica”, diede sistematicamente un fondamento scientifico, filosofico e teologico alla dottrina cristiana.

Origini, oblato a Montecassino, studente a Napoli
Tommaso, nacque all’incirca nel 1225 nel castello di Roccasecca (Frosinone) nel Basso Lazio, che faceva parte del feudo dei conti d’Aquino; il padre Landolfo, era di origine longobarda e vedovo con tre figli, aveva sposato in seconde nozze Teodora, napoletana di origine normanna; dalla loro unione nacquero nove figli, quattro maschi e cinque femmine, dei quali Tommaso era l’ultimo dei maschi.
Secondo il costume dell’epoca, il bimbo a cinque anni, fu mandato come “oblato” nell’Abbazia di Montecassino; l’oblatura non contemplava che il ragazzo, giunto alla maggiore età, diventasse necessariamente un monaco, ma era semplicemente una preparazione, che rendeva i candidati idonei a tale scelta.
Verso i 14 anni, Tommaso che si trovava molto bene nell’abbazia, fu costretto a lasciarla, perché nel 1239 fu occupata militarmente dall’imperatore Federico II, allora in contrasto con il papa Gregorio IX, e che mandò via tutti i monaci, tranne otto di origine locale, riducendone così la funzionalità; l’abate accompagnò personalmente l’adolescente Tommaso dai genitori, raccomandando loro di farlo studiare presso l’Università di Napoli, allora sotto la giurisdizione dell’imperatore.
A Napoli frequentò il corso delle Arti liberali, ed ebbe l’opportunità di conoscere alcuni scritti di Aristotele, allora proibiti nelle Facoltà ecclesiastiche, intuendone il grande valore.

Domenicano; incomprensioni della famiglia
Inoltre conobbe nel vicino convento di San Domenico, i frati Predicatori e ne restò conquistato per il loro stile di vita e per la loro profonda predicazione; aveva quasi 20 anni, quando decise di entrare nel 1244 nell’Ordine Domenicano; i suoi superiori intuito il talento del giovane, decisero di mandarlo a Parigi per completare gli studi.
Intanto i suoi familiari, specie la madre Teodora rimasta vedova, che sperava in lui per condurre gli affari del casato, rimasero di stucco per questa scelta; pertanto la castellana di Roccasecca, chiese all’imperatore che si trovava in Toscana, di dare una scorta ai figli, che erano allora al suo servizio, affinché questi potessero bloccare Tommaso, già in viaggio verso Parigi.
I fratelli poterono così fermarlo e riportarlo verso casa, sostando prima nel castello paterno di Monte San Giovanni, dove Tommaso fu chiuso in una cella; il sequestro durò complessivamente un anno; i familiari nel contempo, cercarono in tutti i modi di farlo desistere da quella scelta, ritenuta non consona alla dignità della casata.
Arrivarono perfino ad introdurre una sera, una bellissima ragazza nella cella, per tentarlo nella castità; ma Tommaso di solito pacifico, perse la pazienza e con un tizzone ardente in mano, la fece fuggire via. La castità del giovane domenicano era proverbiale, tanto da meritare in seguito il titolo di “Dottore Angelico”.
Su questa situazione i racconti della ‘Vita’, divergono, si dice che papa Innocenzo IV, informato dai preoccupati Domenicani, chiese all’imperatore di liberarlo e così tornò a casa; altri dicono che Tommaso riuscì a fuggire; altri che Tommaso ricondotto a casa della madre, la quale non riusciva ad accettare che un suo figlio facesse parte di un Ordine ‘mendicante’, resistette a tutti i tentativi fatti per distoglierlo, tanto che dopo un po’ anche la sorella Marotta, passò dalla sua parte e in seguito diventò monaca e badessa nel monastero di Santa Maria a Capua; infine anche la madre si convinse, permettendo ai domenicani di far visita al figlio e dopo un anno di quella situazione. lo lasciò finalmente partire.

Studente a Colonia con s. Alberto Magno
Ritornato a Napoli, il Superiore Generale, Giovanni il Teutonico, ritenne opportuno anche questa volta, di trasferirlo all’estero per approfondire gli studi; dopo una sosta a Roma, Tommaso fu mandato a Colonia dove insegnava sant’Alberto Magno (1193-1280), domenicano, filosofo e teologo, vero iniziatore dell’aristotelismo medioevale nel mondo latino e uomo di cultura enciclopedica.
Tommaso divenne suo discepolo per quasi cinque anni, dal 1248 al 1252; si instaurò così una feconda convivenza tra due geni della cultura; risale a questo periodo l’offerta fattagli da papa Innocenzo IV di rivestire la carica di abate di Montecassino, succedendo al defunto abate Stefano II, ma Tommaso che nei suoi principi rifuggiva da ogni carica nella Chiesa, che potesse coinvolgerlo in affari temporali, rifiutò decisamente, anche perché amava oltremodo restare nell’Ordine Domenicano.
A Colonia per il suo atteggiamento silenzioso, fu soprannominato dai compagni di studi “il bue muto”, riferendosi anche alla sua corpulenza; s. Alberto Magno venuto in possesso di alcuni appunti di Tommaso, su una difficile questione teologica discussa in una lezione, dopo averli letti, decise di far sostenere allo studente italiano una disputa, che Tommaso seppe affrontare e svolgere con intelligenza.
Stupito, il Maestro davanti a tutti esclamò: “Noi lo chiamiamo bue muto, ma egli con la sua dottrina emetterà un muggito che risuonerà in tutto il mondo”.

Sacerdote; Insegnante all’Università di Parigi; Dottore in Teologia
Nel 1252, da poco ordinato sacerdote, Tommaso d’Aquino, fu indicato dal suo grande maestro ed estimatore s. Alberto, quale candidato alla Cattedra di “baccalarius biblicus” all’Università di Parigi, rispondendo così ad una richiesta del Generale dell’Ordine, Giovanni di Wildeshauen.
Tommaso aveva appena 27 anni e si ritrovò ad insegnare a Parigi sotto il Maestro Elia Brunet, preparandosi nel contempo al dottorato in Teologia.
Ogni Ordine religioso aveva diritto a due cattedre, una per gli studenti della provincia francese e l’altra per quelli di tutte le altre province europee; Tommaso fu destinato ad essere “maestro degli stranieri”.
Ma la situazione all’Università parigina non era tranquilla in quel tempo; i professori parigini del clero secolare, erano in lotta contro i colleghi degli Ordini mendicanti, scientificamente più preparati, ma considerati degli intrusi nel mondo universitario; e quando nel 1255-56, Tommaso divenne Dottore in Teologia a 31 anni, gli scontri fra Domenicani e clero secolare, impedirono che potesse salire in cattedra per insegnare; in questo periodo Tommaso difese i diritti degli Ordini religiosi all’insegnamento, con un celebre e polemico scritto: “Contra impugnantes”; ma furono necessari vari interventi del papa Alessandro IV, affinché la situazione si sbloccasse in suo favore.
Nell’ottobre 1256 poté tenere la sua prima lezione, grazie al cancelliere di Notre-Dame, Americo da Veire, ma passò ancora altro tempo, affinché il professore italiano fosse formalmente accettato nel Corpo Accademico dell’Università.
Già con il commento alle “Sentenze” di Pietro Lombardo, si era guadagnato il favore e l’ammirazione degli studenti; l’insegnamento di Tommaso era nuovo; professore in Sacra Scrittura, organizzava in modo insolito l’argomento con nuovi metodi di prova, nuovi esempi per arrivare alla conclusione; egli era uno spirito aperto e libero, fedele alla dottrina della Chiesa e innovatore allo stesso tempo.
“Già sin d’allora, egli divideva il suo insegnamento secondo un suo schema fondamentale, che contemplava tutta la creazione, che, uscita dalle mani di Dio, vi faceva ora ritorno per rituffarsi nel suo amore” (Enrico Pepe, Martiri e Santi, Città Nuova, 2002).
A Parigi, Tommaso d’Aquino, dietro invito di s. Raimondo di Peñafort, già Generale dell’Ordine Domenicano, iniziò a scrivere un trattato teologico, intitolato “Summa contra Gentiles”, per dare un valido ausilio ai missionari, che si preparavano per predicare in quei luoghi, dove vi era una forte presenza di ebrei e musulmani.

Il ritorno in Italia; collaboratore di pontefici
All’Università di Parigi, Tommaso rimase per tre anni; nel 1259 fu richiamato in Italia dove continuò a predicare ed insegnare, prima a Napoli nel convento culla della sua vocazione, poi ad Anagni dov’era la curia pontificia (1259-1261), poi ad Orvieto (1261-1265), dove il papa Urbano IV fissò la sua residenza dal 1262 al 1264.
Il pontefice si avvalse dell’opera dell’ormai famoso teologo, residente nella stessa città umbra; Tommaso collaborò così alla compilazione della “Catena aurea” (commento continuo ai quattro Vangeli) e sempre su richiesta del papa, impegnato in trattative con la Chiesa Orientale, Tommaso approfondì la sua conoscenza della teologia greca, procurandosi le traduzioni in latino dei padri greci e quindi scrisse un trattato “Contra errores Graecorum”, che per molti secoli esercitò un influsso positivo nei rapporti ecumenici.
Sempre nel periodo trascorso ad Orvieto, Tommaso ebbe dal papa l’incarico di scrivere la liturgia e gli inni della festa del Corpus Domini, istituita l’8 settembre 1264, a seguito del miracolo eucaristico, avvenuto nella vicina Bolsena nel 1263, quando il sacerdote boemo Pietro da Praga, che nutriva dubbi sulla transustanziazione, vide stillare copioso sangue, dall’ostia consacrata che aveva fra le mani, bagnando il corporale, i lini e il pavimento.
Fra gli inni composti da Tommaso d’Aquino, dove il grande teologo profuse tutto il suo spirito poetico e mistico, da vero cantore dell’Eucaristia, c’è il famoso “Pange, lingua, gloriosi Corporis mysterium”, di cui due strofe inizianti con “Tantum ergo”, si cantano da allora ogni volta che si impartisce la benedizione col SS. Sacramento.
Nel 1265 fu trasferito a Roma, a dirigere lo “Studium generale” dell’Ordine Domenicano, che aveva sede nel convento di Santa Sabina; nei circa due anni trascorsi a Roma, Tommaso ebbe il compito di organizzare i corsi di teologia per gli studenti della Provincia Romana dei Domenicani.

La “Summa theologiae”; affiancato da p. Reginaldo
A Roma, si rese conto che non tutti gli allievi erano preparati per un corso teologico troppo impegnativo, quindi cominciò a scrivere per loro una “Summa theologiae”, per “presentare le cose che riguardano la religione cristiana, in un modo che sia adatto all’istruzione dei principianti”.
La grande opera teologica, che gli darà fama in tutti i secoli successivi, fu divisa in uno schema a lui caro, in tre parti: la prima tratta di Dio uno e trino e della “processione di tutte le creature da Lui”; la seconda parla del “movimento delle creature razionali verso Dio”; la terza presenta Gesù “che come uomo è la via attraverso cui torniamo a Dio”. L’opera iniziata a Roma nel 1267 e continuata per ben sette anni, fu interrotta improvvisamente il 6 dicembre 1273 a Napoli, tre mesi prima di morire.
Intanto Tommaso d’Aquino, per i suoi continui trasferimenti, non poteva più vivere una vita di comunità, secondo il carisma di s. Domenico di Guzman e ciò gli procurava difficoltà; i suoi superiori pensarono allora di affiancargli un frate di grande valore, sacerdote e lettore in teologia, fra Reginaldo da Piperno; questi ebbe l’incarico di assisterlo in ogni necessità, seguendolo ovunque, confessandolo, servendogli la Messa, ascoltandolo e consigliandolo; in altre parole i due domenicani vennero a costituire una piccola comunità, dove potevano quotidianamente confrontarsi.
Nel 1267, Tommaso dovette mettersi di nuovo in viaggio per raggiungere a Viterbo papa Clemente IV, suo grande amico, che lo volle collaboratore nella nuova residenza papale; il pontefice lo voleva poi come arcivescovo di Napoli, ma egli decisamente rifiutò.

Per tre anni di nuovo a Parigi e poi ritorno a Napoli
Nel decennio trascorso in Italia, in varie località, Tommaso compose molte opere, fra le quali, oltre quelle già menzionate prima, anche “De unitate intellectus”; “De Redimine principum” (trattato politico, rimasto incompiuto); le “Quaestiones disputatae, ‘De potentia’ e ‘De anima’” e buona parte del suo capolavoro, la già citata “Summa teologica”, il testo che avrebbe ispirato la teologia cattolica fino ai nostri tempi.
All’inizio del 1269 fu richiamato di nuovo a Parigi, dove all’Università era ripreso il contrasto fra i maestri secolari e i maestri degli Ordini mendicanti; occorreva la presenza di un teologo di valore per sedare gli animi.
A Parigi, Tommaso, oltre che continuare a scrivere le sue opere, ben cinque, e la continuazione della Summa, dovette confutare con altri celebri scritti, gli avversari degli Ordini mendicanti da un lato e dall’altro difendere il proprio aristotelismo nei confronti dei Francescani, fedeli al neoplatonismo agostiniano, e soprattutto confutò alcuni errori dottrinari, dall’averroismo, alle tesi eterodosse di Sigieri di Brabante sull’origine del mondo, sull’anima umana e sul libero arbitrio.
Nel 1272 ritornò in Italia, a Napoli, facendo sosta a Montecassino, Roccasecca, Molara; Ceccano; nella capitale organizzò, su richiesta di Carlo I d’Angiò, un nuovo “Studium generale” dell’Ordine Domenicano, insegnando per due anni al convento di San Domenico, il cui Studio teologico era incorporato all’Università.
Qui intraprese la stesura della terza parte della Summa, rimasta interrotta e completata dopo la sua morte dal fedele collaboratore fra Reginaldo, che utilizzò la dottrina di altri suoi trattati, trasferendone i dovuti paragrafi.

L’interruzione radicale del suo scrivere
Tommaso aveva goduto sempre di ottima salute e di un’eccezionale capacità di lavoro; la sua giornata iniziava al mattino presto, si confessava a Reginaldo, celebrava la Messa e poi la serviva al suo collaboratore; il resto della mattinata trascorreva fra le lezioni agli studenti e segretari e il prosieguo dei suoi studi; altrettanto faceva nelle ore pomeridiane dopo il pranzo e la preghiera, di notte continuava a studiare, poi prima dell’alba si recava in chiesa per pregare, avendo l’accortezza di mettersi a letto un po’ prima della sveglia per non farsi notare dai confratelli.
Ma il 6 dicembre 1273 gli accadde un fatto strano, mentre celebrava la Messa, qualcosa lo colpì nel profondo del suo essere, perché da quel giorno la sua vita cambiò ritmo e non volle più scrivere né dettare altro.
Ci furono vari tentativi da parte di padre Reginaldo, di fargli dire o confidare il motivo di tale svolta; solo più tardi Tommaso gli disse: “Reginaldo, non posso, perché tutto quello che ho scritto è come paglia per me, in confronto a ciò che ora mi è stato rivelato”, aggiungendo: “L’unica cosa che ora desidero, è che Dio dopo aver posto fine alla mia opera di scrittore, possa presto porre termine anche alla mia vita”.
Anche il suo fisico risentì di quanto gli era accaduto quel 6 dicembre, non solo smise di scrivere, ma riusciva solo a pregare e a svolgere le attività fisiche più elementari.

I doni mistici
La rivelazione interiore che l’aveva trasformato, era stata preceduta, secondo quanto narrano i suoi primi biografi, da un mistico colloquio con Gesù; infatti mentre una notte era in preghiera davanti al Crocifisso (oggi venerato nell’omonima Cappella, della grandiosa Basilica di S. Domenico in Napoli), egli si sentì dire “Tommaso, tu hai scritto bene di me. Che ricompensa vuoi?” e lui rispose: “Nient’altro che te, Signore”.
Ed ecco che quella mattina di dicembre, Gesù Crocifisso lo assimilò a sé, il “bue muto di Sicilia” che fino allora aveva sbalordito il mondo con il muggito della sua intelligenza, si ritrovò come l’ultimo degli uomini, un servo inutile che aveva trascorso la vita ammucchiando paglia, di fronte alla sapienza e grandezza di Dio, di cui aveva avuto sentore.
Il suo misticismo, è forse poco conosciuto, abbagliati come si è dalla grandezza delle sue opere teologiche; celebrava la Messa ogni giorno, ma era così intensa la sua partecipazione, che un giorno a Salerno fu visto levitare da terra.
Le sue tante visioni hanno ispirato ai pittori un attributo, è spesso raffigurato nei suoi ritratti, con una luce raggiata sul petto o sulla spalla.

Sempre più ammalato; in viaggio per Lione
Con l’intento di staccarsi dall’ambiente del suo convento napoletano, che gli ricordava continuamente studi e libri, in compagnia di Reginaldo, si recò a far visita ad una sorella, contessa Teodora di San Severino; ma il soggiorno fu sconcertante, Tommaso assorto in una sua interiore estasi, non riuscì quasi a proferire parola, tanto che la sorella dispiaciuta, pensò che avesse perduto la testa e nei tre giorni trascorsi al castello, fu circondato da cure affettuose.
Ritornò poi a Napoli, restandovi per qualche settimana ammalato; durante la malattia, due religiosi videro una grande stella entrare dalla finestra e posarsi per un attimo sul capo dell’ammalato e poi scomparire di nuovo, così come era venuta.
Intanto nel 1274, dalla Francia papa Gregorio X, ignaro delle sue condizioni di salute, lo invitò a partecipare al Concilio di Lione, indetto per promuovere l’unione fra Roma e l’Oriente; Tommaso volle ancora una volta obbedire, pur essendo cosciente delle difficoltà per lui di intraprendere un viaggio così lungo.
Partì in gennaio, accompagnato da un gruppetto di frati domenicani e da Reginaldo, che sperava sempre in una ripresa del suo maestro; a complicare le cose, lungo il viaggio ci fu un incidente, scendendo da Teano, Tommaso si ferì il capo urtando contro un albero rovesciato.
Giunti presso il castello di Maenza, dove viveva la nipote Francesca, la comitiva si fermò per qualche giorno, per permettere a Tommaso di riprendere le forze, qui si ammalò nuovamente, perdendo anche l’appetito; si sa che quando i frati per invogliarlo a mangiare gli chiesero cosa desiderasse, egli rispose: “le alici”, come quelle che aveva mangiato anni prima in Francia.

La sua fine nell’abbazia di Fossanova
Tutte le cure furono inutili, sentendo approssimarsi la fine, Tommaso chiese di essere portato nella vicina abbazia di Fossanova, dove i monaci cistercensi l’accolsero con delicata ospitalità; giunto all’abbazia nel mese di febbraio, restò ammalato per circa un mese.
Prossimo alla fine, tre giorni prima volle ricevere gli ultimi sacramenti, fece la confessione generale a Reginaldo, e quando l’abate Teobaldo gli portò la Comunione, attorniato dai monaci e amici dei dintorni, Tommaso disse alcuni concetti sulla presenza reale di Gesù nell’Eucaristia, concludendo: “Ho molto scritto ed insegnato su questo Corpo Sacratissimo e sugli altri sacramenti, secondo la mia fede in Cristo e nella Santa Romana Chiesa, al cui giudizio sottopongo tutta la mia dottrina”.
Il mattino del 7 marzo 1274, il grande teologo morì, a soli 49 anni; aveva scritto più di 40 volumi.

Il suo insegnamento teologico
La sua vita fu interamente dedicata allo studio e all’insegnamento; la sua produzione fu immensa; due vastissime “Summe”, commenti a quasi tutte le opere aristoteliche, opere di esegesi biblica, commentari a Pietro Lombardo, a Boezio e a Dionigi l’Areopagita , 510 “Questiones disputatae”, 12 “Quodlibera”, oltre 40 opuscoli.
Tommaso scriveva per i suoi studenti, perciò il suo linguaggio era chiaro e convincente, il discorso si svolgeva secondo le esigenze didattiche, senza lasciare zone d’ombra, concetti non ben definiti o non precisati.
Egli si rifaceva anche nello stile al modello aristotelico, e rimproverava ai platonici il loro linguaggio troppo simbolico e metafisico.
Ciò nonostante alcune tesi di Tommaso d’Aquino, così radicalmente innovatrici, fecero scalpore e suscitarono le più vivaci reazioni da parte dei teologi contemporanei; s. Alberto Magno intervenne più volte in favore del suo antico discepolo, nonostante ciò nel 1277 si arrivò alla condanna da parte del vescovo E. Tempier a Parigi, e a Oxford sotto la pressione dell’arcivescovo di Canterbury, R. Kilwardby; le condanne furono ribadite nel 1284 e nel 1286 dal successivo arcivescovo J. Peckham.
L’Ordine Domenicano, si impegnò nella difesa del suo più grande maestro e nel 1278 dichiarò il “Tomismo” dottrina ufficiale dell’Ordine. Ma la condanna fu abrogata solo nel 1325, due anni dopo che papa Giovanni XXII ad Avignone, l’aveva proclamato santo il 18 luglio 1323.

Il suo culto
Nel 1567 s. Tommaso d’Aquino fu proclamato Dottore della Chiesa e il 4 agosto 1880, patrono delle scuole e università cattoliche.
La sua festa liturgica, da secoli fissata al 7 marzo, giorno del suo decesso, dopo il Concilio Vaticano II, che ha raccomandato di spostare le feste liturgiche dei santi dal periodo quaresimale e pasquale, è stata spostata al 28 gennaio, data della traslazione del 1369.
Le sue reliquie sono venerate in vari luoghi, a seguito dei trasferimenti parziali dei suoi resti, inizialmente sepolti nella chiesa dell’abbazia di Fossanova, presso l’altare maggiore e poi per alterne vicende e richieste autorevoli, smembrati nel tempo; sono venerate a Fossanova, nel Duomo della vicina Priverno, nella chiesa di Saint-Sermain a Tolosa in Francia, portate lì nel 1369 dai Domenicani, su autorizzazione di papa Urbano V, e poi altre a San Severino, su richiesta dalla sorella Teodora e da lì trasferite poi a Salerno; altre reliquie si trovano nell’antico convento dei Domenicani di Napoli e nel Duomo della città.
A chiusura di questa necessariamente incompleta scheda, si riporta il bellissimo inno eucaristico, dove san Tommaso profuse tutto il suo amore e la fede nel mistero dell’Eucaristia.