lunedì 24 settembre 2012

Se sia necessario che nelle creature si trovi un vestigio della Trinità...


Gli effetti assomigliano tutti in qualche modo alla loro causa, ma in gradi diversi. Infatti alcuni effetti stanno a rappresentare soltanto l‘efficacia della causa, ma non la sua forma, come il fumo rappresenta il fuoco; e si dice che una tale maniera di rappresentare è un vestigio perché il vestigio, o traccia, serve a mostrare il percorso di un viandante, ma non a far conoscere chi egli sia. Altri effetti invece assomigliano alla causa per una somiglianza di forma, come il fuoco prodotto al fuoco che lo produce, e la statua di Mercurio a Mercurio stesso: e questa somiglianza è chiamata immagine. Ora, le processioni delle Persone si presentano quali atti dell‘intelletto e della volontà, come si disse [q. 27]: infatti il Figlio procede come Verbo dell‘intelletto divino, e lo Spirito Santo come Amore della volontà. Quindi nelle creature razionali, in cui si trovano la volontà e l‘intelligenza, si ha una rappresentazione della Trinità a modo di immagine, in quanto si riscontra in esse un verbo mentale e un amore che ne deriva. Invece troviamo in tutte le creature la rappresentazione della Trinità a modo di vestigio, in quanto si trovano in ogni creatura degli aspetti che è necessario attribuire, come alla loro causa, alle Persone divine. Infatti ogni creatura sussiste nel proprio essere, ha inoltre una forma che ne determina la specie, e infine ha un ordine verso qualcos‘altro. Allora diciamo che in quanto essa è una sostanza creata rappresenta la causa o principio: e così indica la Persona del Padre, che è il principio senza principio. In quanto invece ha una data forma o specie rappresenta il Verbo, poiché la forma dell‘opera d‘arte deriva dal verbo mentale dell‘artista. Infine in quanto la creatura dice ordine o tendenza offre una somiglianza con lo Spirito Santo, che è Amore: infatti l‘ordine o attitudine di una creatura verso qualcos‘altro deriva dalla volontà del Creatore. Per questo S. Agostino [ib.] afferma che in ogni creatura si trova un vestigio della Trinità: e perché essa «è qualcosa», e perché «è costituita in una specie », e perché «conserva un certo ordine». — E a queste tre cose si riducono quei tre elementi elencati nel libro della Sapienza: numero, peso e misura [11, 20]. Infatti la misura corrisponde alla sostanza delle cose delimitata dai princìpi delle medesime, il numero alla specie, il peso all‘ordine. — E si riducono a ciò anche gli altri tre termini agostiniani [De nat. boni 3]: il modo, la specie e l‘ordine. — E lo stesso si dica dell‘altra distinzione agostiniana
[cf. Lib. LXXXIII quaest. 18] tra ciò che costituisce, ciò che distingue e ciò che conviene: poiché ogni cosa rimane costituita in forza della propria sostanza, viene distinta per mezzo della forma, dice convenienza mediante l‘ordine. — E a queste si possono facilmente riportare tutte le altre espressioni del genere.
(Tommaso d'Aquino)

domenica 16 settembre 2012

Se creare sia produrre dal nulla...


 Pare che creare non sia produrre dal nulla.
 Infatti: 1. Insegna S. Agostino [Contra adv. leg. et proph. 1, 23]: «Fare si dice a proposito di ciò che assolutamente non esisteva, creare invece è costituire una cosa traendola da ciò che già esisteva».
 2. La nobiltà di un‘azione o di un moto viene considerata in base ai rispettivi termini. Ora, l‘azione che va dal bene al bene, e da un ente a un altro ente, è più nobile di quella che dal nulla porta a qualcosa. D‘altra parte la creazione si presenta come l‘azione più alta e fondamentale fra tutte le operazioni [transitive]. Quindi non può consistere [nel passaggio] dal nulla a qualcosa, ma piuttosto da un essere a un altro essere.
3. La preposizione ex [di o da] indica un rapporto di causa, e precisamente di causa materiale: come quando diciamo che una statua è fatta ex aere [di bronzo]. Ma il nulla non può essere materia di un ente, né causa di esso in qualsiasi altro modo. Quindi creare non è fare qualcosa dal nulla. In contrario: La Glossa dice, a proposito del passo [Gen 1, 1]: «In principio Dio creò», che «creare è fare qualcosa dal nulla».

Dimostrazione: Come si è detto sopra [q. 44, a. 2], non si deve considerare soltanto l‘emanazione di un essere particolare da una causa determinata, ma anche l‘emanazione di tutto l‘essere dalla causa universale che è Dio: e questa emanazione la designamo col nome di creazione. Ora, quanto procede secondo un‘emanazione particolare non preesiste all‘emanazione stessa: se p. es. un uomo viene generato, è segno che quell‘uomo prima non esisteva, ma che è stato prodotto [a partire] da ciò che prima non era un uomo, come una cosa diventa bianca a partire da un soggetto che prima non era bianco. Se quindi consideriamo l‘emanazione di tutto l‘essere universale dalla prima causa, è impossibile pensare che vi sia un ente presupposto a questa causalità. Ora, il nulla è la stessa cosa che nessun ente. Come dunque la generazione di un uomo inizia da quel non-ente che è il non-uomo, così la creazione, che è l‘emanazione di tutto l‘essere, inizia da quel non-ente che è il nulla. Analisi delle obiezioni: 1. S. Agostino qui prende il termine creazione in senso improprio, usando il verbo creare per indicare che una cosa viene cambiata in meglio, come quando si dice che uno è creato vescovo. Ma qui non parliamo di creazione in questo senso, bensì in quello indicato [nel corpo]. 2. Le mutazioni ricevono natura e dignità non dal termine di partenza, ma da quello di arrivo. Un moto perciò sarà tanto più perfetto e nobile quanto più nobile e alto è il termine verso cui tende; per quanto il termine di partenza, contrapposto a quello di arrivo, sia più imperfetto. Così, p. es., la generazione di per sé è più nobile e più fondamentale dell‘alterazione, per il fatto che la forma sostanziale è più che la forma accidentale: ciò nonostante la mancanza della forma sostanziale, che nella generazione è il termine di partenza, è qualcosa di più imperfetto del corrispondente termine di partenza dell‘alterazione. E così pure la creazione è un‘operazione più perfetta e più alta della generazione e dell‘alterazione, dato che il suo termine di arrivo è l‘intera sostanza della cosa. Ciò che invece è inteso come termine di partenza in realtà non esiste. 3. Quando si dice che una cosa è fatta dal nulla, la preposizione ex [di o da] sta a indicare non la causa materiale, ma la sola successione: come quando si dice che dalla mattina si va facendo mezzogiorno, cioè dopo la mattina viene il mezzogiorno. Tuttavia si osservi che la preposizione da o include la negazione espressa nel termine nulla [p. es.: dal non essere], oppure viene a sua volta inclusa dalla negazione stessa [p. es.: non da un essere]. Nel primo caso dunque resta affermata la successione, e si esprime il suo ordine al non essere precedente. Se invece la negazione include la preposizione, allora la successione viene trascurata, e l‘espressione: è fatto dal nulla ha questo senso: non è fatto di [o da] qualcosa; come se uno dicesse: costui parla di nulla, perché non parla di
qualcosa. Ora, in tutti e due i modi è vero che creare è fare qualcosa dal nulla. Ma nel primo caso la preposizione da indica successione, come si è detto; nel secondo invece indica la causa materiale, che viene negata.
(Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, Analisi delle difficoltà, dimostrazione e soluzioni delle difficoltà, Quesito 45 Articolo 1)

Se Dio sia la causa finale di tutte le cose...

Ogni agente agisce per un fine: altrimenti dall‘operazione non potrebbe risultare un effetto piuttosto che un altro, se non per caso. Ora, l‘operante e il soggetto paziente come tale hanno l‘identico fine, ma sotto aspetti diversi: infatti ciò che l‘agente mira a imprimere e ciò che il paziente intende ricevere sono una sola e identica cosa. Ora, ci sono degli esseri che nell‘imprimere attivamente la propria azione ne ricevono anche [un perfezionamento], e tali sono gli agenti imperfetti: è naturale quindi che essi nell‘agire mirino ad acquistare qualcosa. Ma al primo agente, che è pura attualità, non si può attribuire l‘operazione fatta per giungere al possesso di un fine: egli invece mira soltanto a comunicare la propria perfezione, che è la sua stessa bontà. E ogni creatura tende a raggiungere la propria perfezione, che è una somiglianza della perfezione e della bontà divina. Così dunque la bontà divina è la causa finale di tutte le cose.
(Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae)

giovedì 13 settembre 2012

Se la materia prima sia stata creata da Dio...


Gli antichi filosofi si inoltrarono nella conoscenza della verità un po‘ per volta, e quasi passo per passo. Da principio, infatti, essendo per così dire piuttosto grossolani, credevano che non esistessero se non i corpi sensibili. E quelli tra loro che accettavano il moto non lo consideravano se non sotto certi aspetti accidentali, come la rarefazione e la condensazione, la fusione e la dissociazione. Supponendo poi che la sostanza stessa dei corpi fosse increata, si limitarono a stabilire delle cause per tali trasformazioni accidentali, quali l‘amicizia, la lite o altre cose del genere. Procedendo però oltre, i filosofi distinsero razionalmente la forma sostanziale dalla materia, che ritenevano increata; e capirono che nei corpi avvengono delle trasmutazioni di forme sostanziali. A queste trasformazioni assegnavano poi delle cause universali, cioè il cerchio obliquo per Aristotele [De gen. et corr. 2, 10], e le idee per Platone [Tim. 18].
Ma bisogna considerare che la materia viene coartata dalla forma a una determinata specie; come pure la sostanza di una data specie viene ristretta a un determinato modo di essere dagli accidenti che ad essa si aggiungono, come il sostantivo uomo viene ristretto dall‘aggettivo bianco. Gli uni e gli altri dunque considerarono l‘ente sotto un aspetto particolare, o in quanto [specificamente] è questo ente, o in quanto è tale ente [determinato dai suoi accidenti]. Quindi essi assegnarono alle cose soltanto delle cause efficienti particolari. Altri infine si sollevarono fino a considerare l‘ente in quanto è ente; e ricercarono la causa delle cose non solo in quanto esse sono queste o sono tali, ma in quanto sono enti. Ora, la causa delle cose in quanto sono enti deve causarle non solo rendendole tali con i loro accidenti, o queste con le loro forme sostanziali, ma causarle in tutto ciò che in qualsiasi maniera appartiene alla loro concreta esistenza. Quindi è necessario ammettere che anche la materia prima è stata creata dalla causa universale dell‘essere.
(Summa Theologiae)

martedì 11 settembre 2012

Piccolo ma significativo, componimento che richiama oggigiorno il valore essenziale della nostra missione terrena...

Ogni uomo e' composto d'anima e di corpo; l'origine dell'anima e' da Dio; la origine del corpo e' della terra.
L' anima e' piu' nobile del corpo perche' e' uscita dalle mani di Dio. Il corpo invece e' stato prodotto dalla natura. Ed ascoltatene la ragione.
Iddio, quando creo' il nostro primo padre Adamo, sappiamo che prese un po' di fango e con questo ne formo' il corpo.
Ed ecco dedotta l'origine del corpo che e' stato prodotto dalla natura. L'anima invece gliela infuse con il suo alito.
Ed ecco l'origine dell'anima che e' stata creata da Dio.
Ora il corpo senza l'anima non potrebbe vivere, quindi esso diventerebbe un pasto di vermi.
(San Pio da Pietralcina, all'epoca Fra Pio).
Tema datato ottobre 1904

venerdì 7 settembre 2012

Se fossi re!


Oh se fossi re! Quante belle cose vorrei adempire. Prima di ogni altra, vorrei essere sempre un re religioso, come ora sono e spero di esserlo sempre. Combatterei prima di tutto il divorzio, da molti cattivi desiderato, e farei sì che il sacramento del matrimonio fosse maggiormente rispettato.
Che cosa accade a Giuliano l’apostata, il quale era intrepido, temperante e studioso, ma che ebbe poi il gran torto di rinnegare il cristianesimo, in cui era stato educato, perché si era già fisso in mente di far risorgere il paganesimo? Per lui fu tempo sprecato, perché non ottenne altro che l’odioso nome di apostata.
Anzi io cercherei di illustrare il mio nome col battere sempre la via del vero cristiano; guai poi a coloro che non volessero seguirla! Li punirei subito o col metterli in prigione o coll’esilio o pure con la morte. Avrei a massima l’esempio di Alessandro Severo: “non fate ad altri quello che non vorreste a voi fosse fatto”. Durante il mio regno non farei altro che visitare le provincie per migliorarne l’amministrazione, e lasciare dappertutto memorie con egregi monumenti, come porte strade circhi biblioteche ecc…
Mi dimostrerei affabile, umano, osservatore delle leggi, passeggerei come semplice cittadino, darei udienza a tutti, vestirei alla buona, usando vesti fatte dalle donne in casa.
Accoglierei alla mia corte i più grandi scrittori, stipendierei bene i maestri di retorica, favorirei le arti e sarebbe mia massima quella di Vespasiano . “ che solo un amico dell’umanità è degno di comandare”.

Francesco Forgione (San Pio da Pietralcina).
1902

Riflessioni...


Editoriale de "Il Foglio" di giorno 07-09-2012
Riflettiamo insieme sulle problematiche odierne...

C'e' un paradosso evidente che non puo' non saltare agli occhi in questi giorni in cui le Paraolimpiadi di Londra riempiono come mai prima le pagine dei giornali. Il paradosso e' ancora piu' lampante sfogliando siti e giornali inglesi, i quali dedicano quotidianamente decine di articoli alle imprese di atleti portatori di handicap...
Il paradosso e' presto spiegato: buona parte degli atleti che emozionano il pubblico inglese probabilmente non sarebbero mai nati se fossero stati inglesi. Nel Regno Unito la legge infatti permette l'aborto per motivi sociali fino alla ventiquattresima settimana di vita del feto ( sesto mese di gravidanza) ma e' possibile praticare aborti ancora piu' tardivi motivati da malattie gravi del feto. Da circa un anno i dati che si riferiscono a questa scelta sono stati resi pubblici, e si e' venuto a sapere che tra le malattie del feto si considerano la spina bifida, la sindrome di Down, ma anche difetti rimediabili come il labbro leporino, il piede torto e alcune malformazioni del palato.

domenica 2 settembre 2012

Se il Figlio sia uguale al Padre in grandezza...


Pare che il Figlio non sia uguale al Padre in grandezza. Infatti:

1. Il Figlio medesimo afferma [Gv 14, 28]: «Il Padre è più grande di me». E l‘Apostolo dice di lui [1 Cor 15, 28]: «Il Figlio sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa». 2. La paternità conferisce dignità al Padre. Ma essa non conviene al Figlio. Quindi il Figlio non ha tutto ciò che appartiene alla dignità del Padre, e di conseguenza non gli è uguale in grandezza. 3. Dove troviamo un tutto e delle parti, più parti sono qualcosa di più di una sola o di un numero minore di esse: tre uomini, p. es., sono più che uno o due. Ma anche in Dio si può trovare il tutto universale e le parti, poiché sotto il termine di relazione o di nozione sono contenute più nozioni. Essendoci dunque nel Padre tre nozioni e nel Figlio due soltanto, ne segue che il Figlio non può essere uguale al Padre. In contrario: S. Paolo [Fil 2, 6] così parla [del Figlio]: «Non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio». Dimostrazione: È necessario affermare che il Figlio è uguale al Padre in grandezza. Infatti la grandezza di Dio non è altro che la perfezione della sua natura. Ora, rientra nell‘idea di paternità e di filiazione che il figlio mediante la generazione giunga ad avere la stessa perfezione di natura che è nel padre, come la ha anche il padre. Però negli uomini la generazione consiste nella lenta trasmutazione di un soggetto che passa dalla potenza all‘atto: perciò il figlio di un uomo non è uguale al padre fin dal principio, ma lo diviene in seguito con la crescita normale, a meno che non avvenga diversamente per un difetto del principio generativo. Ora, da quanto fu detto [q. 27, a. 2; q. 33, a. 2, ad 3, 4; a. 3], è chiaro che in Dio c‘è in senso vero e proprio tanto la paternità quanto la filiazione. Né si può dire che la potenza del Padre sia stata difettosa nel generare; o che il Figlio raggiunga la sua perfezione poco alla volta e per una lenta trasmutazione. Quindi si deve dire che il Figlio, già da tutta l‘eternità, è uguale al Padre in grandezza. Per questo S. Ilario [De Synod. 73] insegna: «Tolta la debolezza dei corpi, tolto l‘inizio del concepimento, tolti i dolori del parto e tutte le umane necessità, ogni figlio per la sua nascita è uguale al padre, essendone l‘immagine naturale». Analisi delle obiezioni: 1. Quelle parole vanno riferite alla natura umana di Cristo, nella quale egli è minore del Padre, e a lui sottoposto. Ma secondo la natura divina è uguale al Padre. E ciò corrisponde a quanto asserisce S. Atanasio [Symb.]: «Egli è uguale al Padre per la divinità, minore del
Padre per l‘umanità». Oppure, secondo S. Ilario [De Trin. 9, 54]: «Il Padre è maggiore per la dignità di donatore, però non è minore colui a cui viene dato l‘identico essere». E altrove [De Synod. 79] lo stesso S. Ilario insegna che «la soggezione del Figlio è pietà naturale», cioè riconoscimento dell‘autorità paterna, «mentre la soggezione delle altre cose è debolezza creaturale». 2. L‘uguaglianza è desunta dalla grandezza. Ma in Dio la grandezza indica la perfezione della natura, come si è detto sopra [nel corpo; cf. a. 1, ad 1], e appartiene così all‘essenza. Quindi in Dio l‘uguaglianza e la somiglianza sono desunte da ciò che è essenziale: e non vi può essere in lui disuguaglianza e dissomiglianza per la distinzione delle relazioni. Quindi S. Agostino [Contra Maxim. 2, 18] dice: «Si ha il problema dell‘origine col domandare da chi deriva; si ha invece quello dell‘uguaglianza domandando come è, o quanto è grande ». La paternità dunque costituisce la dignità del Padre come la costituisce la sua essenza, poiché la dignità è qualcosa di assoluto che appartiene all‘essenza. Ora, come la stessa essenza che nel Padre è paternità nel Figlio è filiazione, così la stessa dignità che nel Padre è paternità nel Figlio è filiazione. Quindi è vero che il Figlio ha tanta dignità quanta ne ha il Padre. Però non ne segue che si possa concludere: il Padre ha la paternità, dunque anche il Figlio ha la paternità. Perché [in tale illazione] si passa dall‘essenza alle relazioni: infatti identica è l‘essenza e la dignità del Padre e del Figlio, ma nel Padre ha la relazione di donatore, nel Figlio invece ha la relazione di ricevente. 3. La relazione in Dio non è un tutto universale, quantunque si predichi delle singole relazioni: poiché tutte le relazioni si identificano nell‘essenza e nell‘essere, il che ripugna al concetto di universale, le cui parti si distinguono per il loro diverso essere. E in precedenza [q. 30, a. 4, ad 3] abbiamo spiegato che anche persona in Dio non è un universale. Quindi né tutte le relazioni né tutte le persone prese assieme sono qualcosa di più che una sola: perché in ogni persona c‘è tutta la perfezione della natura divina.
(Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae)